Pubblicato nel 1980, questo libro ha avuto un lusinghiero riscontro soprattutto tra i colleghi più giovani o comunque in fase di formazione. D'altro canto era questa la mia motivazione: fornire una serie di indicazioni, non tanto tecniche, quanto di ordine teorico e metodologico, a coloro che si apprestavano a confrontarsi con il paziente psichiatrico.
Da alcuni anni questo testo è introvabile, come mi risulta dalle richieste che ancora oggi mi provengono da parte di specializzandi ed operatori psichiatrici.
La recente e totalmente rinnovata edizione del "Manuale di Psichiatria e Psicoterapia" potrebbe rendere superfluo questo testo, dal momento che nel Manuale gli stessi argomenti sono stati ampiamente trattati.
Ma due motivi mi spingono a riproporlo.
Il primo è di ordine personale: è fonte di soddisfazione constatare come nel testo di venti anni fa era presente, anche se in nuce, tutta la tematica, teorica e clinica, che poi ho ampliato nel corso degli anni e che ha trovato nel Manuale, una sistematizzazione completa. E' evidente la continuità e la coerenza: aumentano le argomentazioni e le tematiche, ma la modalità di approccio alla psicopatologia ed alla terapia rimane immutata.
Il secondo motivo è che ritengo utile riproporre le osservazioni e le considerazioni in ordine alla complessità del primo colloquio psichiatrico in maniera più articolata in un unico testo.
Comunque sono trascorsi venti anni, ovviamente ci sono nuove tematiche e nuove problematiche: pertanto pur mantenendo inalterata la struttura del testo, mi è sembrato opportuno aggiungere nuovi capitoli per dare una visione più ampia e completa.
I casi clinici sono stati in parte ripresi dalla vecchia edizione, altri sono stati raccolti proprio per la presente, dal momento che scopo più specifico è quello di descrivere il primo colloquio psichiatrico in previsione di un possibile progetto terapeutico. Infatti nella descrizione dei casi clinici saranno evidenziate le osservazioni, le modalità operative ed i complessi processi mentali dello psichiatra da cui derivano le ipotesi psicodinamiche e diagnostiche.
Credo che questa sia la parte più interessante per coloro che vogliono apprendere questa difficile "arte" del colloquio psichiatrico, totalmente bandita dal D.S.M. IV e dai manuali che si basano su questa impostazione ateorica e modulistica.
Voglio inoltre sottolineare che alcuni dei casi clinici descritti sono stati seguiti successivamente in psicoterapia ed è stato quindi possibile verificare le ipotesi psicodinamiche formulate inizialmente.
Pertanto questa metodologia, con la possibilità del confronto e della verifica, rappresenta oltre che uno strumento clinico anche uno strumento di ricerca teorica continua.
In questa nuova stesura è stata importante la collaborazione della dott.ssa Franca Monfreda che mi ha aiutato non solo elaborando i capitoli 7 ed 8 , ma soprattutto nella registrazione ed elaborazione dei diversi casi clinici.
Roma, ottobre 2000
In psichiatria, il colloquio rappresenta certamente lo strumento fondamentale sia per la conoscenza che per la trasformazione del paziente; pertanto parlare del colloquio psichiatrico equivarrebbe a scrivere un trattato di psicopatologia e di clinica psichiatrica. Ma non è questo il mio intendimento e pertanto mi limiterò ad esaminare quanto succede all'interno del primo incontro tra lo psichiatra ed il paziente.
Per primo colloquio si intende quella situazione che si svolge nell'arco di tempo che intercorre tra l'incontro e la decisione da parte del terapeuta di poter fare qualcosa e che cosa: esso cronologicamente corrisponde in genere con il primo incontro, a volte può essere necessario farne un secondo oppure si può fare un lunghissimo primo colloquio.
Comunque esso non va oltre il secondo colloquio; se al di là di questo limite, lo psichiatra non sa ancora cosa decidere o fare, è meglio lasciar perdere: tanto non riuscirà a capirlo nemmeno successivamente. L'unica cosa da fare è fermarsi a riflettere sui motivi che gli hanno impedito di capire cosa stava succedendo nel rapporto con quel paziente.
L'analisi del primo colloquio evidenzierà non solo la complessità, ma anche le difficoltà ed i problemi che insorgono.
Il primo colloquio è una complessa interazione tra paziente e terapeuta, ove l'aspetto più importante rimane comunque quello di prendere una decisione, di fare una scelta: decidere, scegliere è il nodo fondamentale che fa emergere la responsabilità ed il potere del terapeuta: potere che nasce da una specifica competenza, responsabilità che nasce da una precisa dimensione etica personale. In assenza di un'adeguata teoria e conoscenza, il potere può diventare impotenza o strapotere, ed in assenza di una dimensione personale, la responsabilità diventa irresponsabilità.
Ma capire vuol dire anche trasformare: queste due dimensioni non possono essere scisse, altrimenti si cade nella pura dimensione diagnostica, che separata da una possibilità trasformativa, è violenza. La diagnosi diventa una condanna ed allora, più o meno consapevolmente, lo psichiatra si trasforma in un giudice o poliziotto. Quindi capire e trasformare debbono andare di pari passo.
Evidentemente le modalità del colloquio psichiatrico sono il frutto e riflettono tutta una teoria ed una prassi ben precise. In psichiatria, come in medicina, bisogna muoversi sapendo esattamente cosa si cerca, come si cerca e come si utilizzano le cose trovate. Ma bisogna tenere presente che si cerca quel che si conosce (la teoria) e che si finisce poi con il trovare solo quello che ci si prefigge di cercare. E' quindi importante avere una visione ampia e complessiva della psicopatologia e non restringere a poche formule la complessità dell'uomo.
Quindi è all'interno delle coordinate di una teoria psicologica e psicopatologica che si può cercare qualcosa, altrimenti si va alla cieca o, peggio, lo psichiatra si fa guidare dal paziente, invertendo quindi le funzioni e la funzionalità del rapporto.
Ma non bastano le coordinate teoriche, perché c'è anche la dimensione personale del terapeuta che può incidere sulla conoscenza (che in psichiatria è conoscenza dell'uomo). Quindi fare un colloquio psichiatrico vuol dire una piena conoscenza sia della psicopatologia generale, sia della propria dimensione personale. Solo in questo modo la conoscenza può diventare fattore trasformativo. Conoscenza della propria equazione personale e conoscenza della teoria sono due basi fondamentali, ma per fare psichiatria è necessario che ci sia una prassi: e la prassi si può acquisire solo attraverso un'esperienza concreta con il paziente.
Per fare questo bisogna acquisire un metodo di osservazione: occorre saper osservare e rilevare e dare un senso alle cose osservate. C'è un momento, più o meno lungo, durante il quale lo psichiatra, prima di assumersi a pieno carico la responsabilità di una terapia, deve mettere in atto quanto ha imparato sul piano metodologico, durante il corso di medicina: l'osservazione, la raccolta dei dati, il collegamento, la sintesi dei dati per un'ipotesi diagnostica.
Poiché ritengo che ogni colloquio psichiatrico debba essere di per sé terapeutico e che la terapia psichiatrica si attua solo attraverso un rapporto interpersonale, è evidente che identifico la psichiatria con la psicoterapia. Cioè la cura della psiche (psichiatria) si identifica con la cura per mezzo della psiche (psicoterapia).
Può sembrare un utopia, ma quello che sembra utopia oggi, può diventare realtà domani: non bisogna dimenticare che solo da qualche decennio la psichiatria si è trasformata da custodialistica in assistenziale. Forse bisogna attendere ancora del tempo, perché da una dimensione assistenziale la psichiatria diventi realmente terapeutica. Il che evidentemente presuppone la presenza di una teoria in grado di comprendere e spiegare la psicologia e la psicopatologia umana.
Ma avvicinarsi alla psichiatria vuol dire anche ed in primo luogo acquisire una capacità di osservazione e di comprensione che pone il problema della formazione dello psichiatra. Essa avviene in genere all'interno di istituzioni ove il rapporto tra l'aspirante psichiatra ed il paziente psichiatrico passa normalmente attraverso il complesso lavoro di una equipè ed in una situazione di apprendimento, che presenta un iter più o meno lungo.
Proprio in fase di apprendimento può essere utile conoscere due modalità di approccio: pertanto propongo due modalità di colloquio psichiatrico. Da una parte, un modello di tipo clinico descrittivo, dall'altro uno strettamente psicoterapeutico; essi corrispondono come vedremo a due modalità in parte diverse ma non opposte del rapporto medico-paziente.
Nel primo caso ci troveremo alla fine del colloquio psichiatrico e della raccolta dei dati, alla stesura di una cartella clinica e al demandare il lavoro ad una collaborazione in seno ad una equipè psichiatrica; nell'altro, all'inizio e al proseguimento di un lavoro di trasformazione, di cui il terapeuta e solo lui si fa carico. Al di fuori di queste due dimensioni non esiste altro: certi cosidetti colloqui psichiatrici, che servono esclusivamente alla diagnosi, sono dei veri interrogatori, alla fine dei quali si può stendere solo un verbale. Il che non è di competenza psichiatrica mentre altre situazioni psichiatriche, alla fine delle quali c'è sempre una risposta iterativa, quale per esempio la terapia psicofarmacologica, sono situazioni inutili.
Per arrivare alla proposizione di questi due modelli sarà necessario tentare dapprima una definizione del colloquio psichiatrico, poi vedere la struttura e le diverse modalità del rapporto medico-paziente.
Una delle più semplici definizioni è la seguente " ...il colloquio
è una conversazione con uno scopo". H. S. Sullivan ne dà una definizione
più accurata: " ...il colloquio è una situazione in cui la comunicazione avviene
in primo luogo a voce, in un gruppo di due persone, che si incontrano più o
meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente, con lo scopo
di chiarire il modo caratteristico di vivere della persona in esame, paziente
o cliente: modo di vivere che egli trova particolarmente molesto e degno di
nota e dalla cui chiarificazione egli si attende un beneficio".
I. Stevenson (dal Manuale di Psichiatria a cura di S. Arieti) nel descrivere il colloquio psichiatrico tende a sottolineare le implicazioni emotive del rapporto medico-paziente, descrivendo in un capitolo successivo l'esame psichico.
G. Lai definisce il colloquio terapeutico in questo modo: " ...esso si riferisce ad una situazione caratterizzata da uno psicoterapeuta A(medico, psicoanalista, infermiere, psicologo, ecc.) che si incontra con un cliente o paziente R in un luogo S proprio sia ad A che e/o a R, avendo sia R che A degli scopi, delle aspettative , per questo incontro che è per R e per A, non spontaneo bensì artificiale".
Da queste esemplificazioni molto sintetiche, si può notare una differenza tra gli psicoterapeuti (G. Lai, H. S. Sullivan) e gli psichiatri (I. Stevenson), nel senso che i primi considerano l'incontro in maniera globale; i secondi tendono a mantenere separati i due momenti, da una parte il rapporto con la dinamica affettiva, dall'altra l'osservazione che coincide con l'esame psichico.
Come vedremo queste due modalità corrispondono a due diverse concettualizzazioni; ma è anche da sottolineare che questi modelli possono variare anche a seconda della particolare situazione psicopatologica.
Cioè mentre il modello psicoterapeutico è applicabile in tutti i casi di psiconevrosi, disturbi di personalità o forme di psicosi non eccessivamente gravi, è evidente che in situazioni ove si presenti una sindrome demenziale o confusionale, l'esame psichico rappresenta l'elemento non solo fondamentale, ma anche a volte l'unico possibile.
Pertanto più che dare una definizione di una situazione così complessa quale può essere un primo incontro psichiatra- paziente, cercherò di definire brevemente alcuni fattoti fondamentali.
Il colloquio psichiatrico si costituisce all'interno dell'incontro tra due persone di cui uno è il terapeuta e l'altro è il paziente (situazione che diversifica a seconda che il paziente si definisce o viene definito tale).
Il paziente è una persona che comincia in maniera più o meno latente, spesso deformata, una serie di richieste di aiuto, che riguardano difficoltà inerenti alla sua vita. Difficoltà che riflettono e sono il risultato non solo di avvenimenti attuali, ma di tutta la storia del paziente.
Il terapeuta è una persona che ha scelto, spesso per motivi sintomatici, questo lavoro ma che deve essere in grado di recepire e capire non solo il discorso manifesto, ma anche quello latente del paziente per potergli dare una risposta.
E' evidente che questo incontro crea una serie di dinamiche che possono facilitare, ostacolare o impedite il lavoro. Il rapporto è mediato principalmente dalla comunicazione verbale, ma bisogna tener conto anche di tutta la ricchezza che proviene dalla comunicazione non verbale, come bisogna tener conto che il colloquio non è a senso unico. Nel senso che anche il paziente può recepire una serie di informazioni dalla comunicazione verbale e non verbale del terapeuta: tono della voce, sguardo, mimica, ecc., che possono esprimere cose fondamentali, come ad esempio l'interesse o il fastidio da parte del terapeuta.
Ma il fatto fondamentale rimane lo scopo di questo incontro: apparentemente possono essere tanti, ma in effetti per il primo colloquio lo scopo deve essere uno solo, cioè quello di dare una risposta ed una indicazione al paziente.
Roma, ottobre 1979
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CENTRO DI PSICOTERAPIA DINAMICA
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