CopertinaDAL MAL DI VIVERE ALLA DEPRESSIONE

Nicola Lalli

Magi Editore, 2008

La depressione nell’ultimo cinquantennio è stata terra di conquista da parte delle case farmaceutiche che ricorrendo al poco conosciuto disease mongering, hanno creato, a tavolino, nuove patologie e soprattutto nuovi bisogni per plasmare una categoria sempre più ampia di clienti, non certamente di pazienti. È sconcertante come numerosi psichiatri e ricercatori hanno colluso, spesso in maniera consapevole, con questa dinamica di mercato che nulla ha a che fare con la scienza.
L’autore ha sentito la necessità, ripercorrendo un lungo viaggio nella storia, nell’antropologia culturale, nelle neuroscienze, nella clinica, nella letteratura e nell’arte, di riportare alla luce le vere caratteristiche della depressione e le sue possibili cause. Convinto che solo una comprensione approfondita, priva di ideologie e di pregiudizi, possa fornire una valida risposta a quella che è stata definita come “la malattia del secolo”.
Quindi, senza farsi incantare dalle sirene del marketing, dalle riviste patinate di psichiatria o dai megacongressi, il lettore potrà esplorare “le terre della depressione”, consapevole che Scilla e Cariddi lo attendono al varco. Il biologismo riduttivo da una parte, lo psicologismo eclettico e accattivante dall’altra. Pertanto l’esposizione sarà saldamente ancorata alla linea mediana della clinica e terrà costantemente presente l’importanza dei fattori culturali e la loro evoluzione nel corso del tempo: dati fondamentali per differenziare nettamente il “mal di vivere” – tipica e strutturale modalità dell’uomo - dalla depressione come evento clinico.
In questa ottica, il volume si propone come un saggio di “psicodinamica culturale” sulla depressione.

* * *

1- PANORAMICA DELLA SITUAZIONE ATTUALE

Oggi, siamo posti di fronte ad uno strano paradosso:
il fenomeno della depressione diventa sempre più comune e diffuso,
nel momento stesso in cui la psichiatria non concede più il tempo,
alla osservazione ed all’ascolto dei pazienti.

P. Fédida

La depressione è un tema complesso, articolato, troppo spesso mistificato, che rende inevitabile una lettura nuova, attenta, critica, ma soprattutto integrata in una visione complessiva che consideri la depressione non solo come fenomeno clinico, ma anche come modalità strutturale dell’essere umano e come tale da sempre presente nella cultura, nella letteratura, nell’arte, in una parola, nella storia dell’uomo.
Infatti l’angoscia per la perdita e per la morte, la consapevolezza e l’incertezza del futuro, il senso di colpa, sono tematiche universali, presenti fin da quando l’uomo è diventato “Homo sapiens sapiens” (per ulteriori approfondimenti su questa tematica vedi sul sito “Teoria dell’Evoluzione e psicopatologia”). Per una lettura che sia realmente nuova utilizzerò discipline diverse ma affini alla clinica psichiatrica, come l’antropologia culturale, l’arte, la filosofia, la storia del pensiero, insieme a discipline più recenti come le neuroscienze e la psicologia evolutiva.
Nel contesto di questo libro userò il termine “depressione” in un significato molto ampio, che successivamente cercherò di definire per evidenziarne le diverse tipologie: operazione fondamentale per la comprensione della eziopatogenesi e quindi anche di conseguenti prassi terapeutiche adeguate.
Attualmente la depressione viene considerata coma la patologia più frequente ed economicamente onerosa: l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) prevede che per il 2020 essa sarà la patologia che per morbilità ed invalidità occuperà in tutto il mondo il secondo posto subito dopo le malattie cardiovascolari. Al momento, si considera che il 10-15% della popolazione mondiale ha avuto o avrà uno o più episodi depressivi. Negli USA ci sono 19 milioni di depressi pari al 6% della popolazione totale; in Italia la stima è di circa 5 milioni pari al 12% della popolazione (con un’incidenza doppia tra le donne) e con un costo totale pari all’1% del PIL.
La depressione non è solo problema psichiatrico, ma anche sociale ed economico: pertanto si rende necessaria una più approfondita conoscenza della clinica ed una accurata verifica delle varie modalità di intervento terapeutico per comprovarne la loro efficacia e validità, anche in riferimento al problema costi-benefici.
La stampa, la tv, in questo coro non sono da meno le riviste specialistiche tendono a proporre la depressione come la malattia della modernità e del consumismo e tendono ad enfatizzare l’aumento esponenziale di questi ultimi cinquant’anni: tale è anche la rappresentazione nell’immaginario collettivo.
Ed è questa visione, dovuta ad ignoranza ma anche a malafede, che cercherò di contestare. Non solo perché la depressione è sicuramente la più antica psicopatologia conosciuta, ma anche perché è stata sempre presente nella storia dell’uomo anche se in particolari periodi storici è stata diversamente denominata: melanconia, tedium vitae, accidia, spleen, nostalgia, ecc.
Inoltre a causa della difficoltà di conoscere la vera epidemiologia della depressione, il criterio utilizzato, comunque molto scorretto, è quello di calcolare il numero dei pazienti depressi, sulla base dalla quantità di antidepressivi consumati.
Perché scorretto? Perché a causa della facilità e superficialità con la quale vengono prescritti questi farmaci, soprattutto dopo l’immissione sul mercato degli SSRI, il cui successo è dovuto principalmente alla minor presenza di effetti collaterali, il dato epidemiologico, così calcolato, è falsato in eccesso.
Ma c’è di più. In questo modo si danno per scontati due problemi che invece devono essere affrontati seriamente. Il primo è stabilire in che modo e in quali casi gli antidepressivi funzionino realmente. Il secondo è se l’equivalenza tra consumo di antidepressivi (consumo che è indotto da una campagna pubblicitaria sempre più aggressiva da parte delle case farmaceutiche) e numero di pazienti depressi è una equazione accettabile.
Inoltre l’eziopatogenesi della depressione viene definita sulla base di un ragionamento sicuramente fallace. La constatazione che i farmaci antidepressivi aumentino la concentrazione nel Sistema Nervoso Centrale (SNC) della serotonina ed in parte della noradrenalina porta, con un ragionamento molto discutibile, a ritenere che un’insufficiente concentrazione dei questi due neurotrasmettitori sia la causa della depressione. Affermazione poco plausibile perché con il nome generico di depressione vengono indicate forme molto diverse tra di loro che, come vedremo nel capitolo sulla nosografia (“Nosografia e ciclo vitale”), possono avere diverse eziologie.
Il ragionamento eziopatogenetico accettato dalla maggior parte degli psichiatri, è molto simile a quello che secoli fa era utilizzato per validare la teoria degli umori. Questa teoria riteneva che l’eccesso di bile nera fosse la causa della depressione e proponeva come rimedio l’elleboro, potente emetico e diarroico sicuramente tossico che produceva emorragie gastroenteriche che determinavano un colorito estremamente scuro delle feci: colorito scuro che veniva ritenuto prova evidente della eliminazione della bile nera. Un errore teorico veniva così ad essere avallato da una valutazione empirica altrettanto errata infatti il colorito scuro era dovuto a sangue occulto nelle feci e non già ad eliminazione di bile nera. Così due errori, uno teorico e l’altro empirico, venivano utilizzati a confermare la validità di una teoria completamente errata. Teoria che ha prevalso per diversi secoli: come a dire che le spiegazioni semplici, anche se false, sono dure a morire.
La depressione, che è la più antica patologia psichiatrica conosciuta, è strutturale alla psiche umana, perché attiene a radicali e basilari problematiche dell’uomo come l’angoscia della perdita e dell’abbandono, la consapevolezza della morte, l’insicurezza del futuro, il senso di colpa. Fattori che sono fondamentalmente psicologici e culturali e che pertanto ci inducono a tener in debito conto queste cause nella comprensione dell’eziopatogenesi. È sempre evidente una alterazione del soma nella depressione e soprattutto in quella più grave: questa correlazione tra depressione e funzioni fondamentali e i bioritmi corporei ci aiuterà a tenere in debito conto l’importanza dei fattori biologici nella comprensione della depressione.
Ma ritorniamo alla depressione come problema sociale: se pensiamo che circa l’80% dei suicidi è dovuto a disturbi depressivi, possiamo comprendere qual è il prezzo elevato che questa malattia comporta sia in termini di sofferenza personale e di invalidità, ma anche in termini di morte. Ricordo che nel mondo avviene un suicidio ogni 30 secondi.
Pertanto è necessario che la galassia “depressione” sia oggetto di attento studio sia per comprenderne le cause, sia per definirne le diverse modalità espressive, sia per apprestare le terapie più adatte ed efficaci.
Ma dal momento che la terapia psicofarmacologica viene proposta, soprattutto in campo accademico e scientifico, come l’unica e valida terapia, bisognerà allora chiedersi se questa affermazione è attendibile o meno.
E per questo è necessario, prima di chiudere questa breve panoramica sullo stato attuale della depressione, proporre alcune riflessioni sui farmaci antidepressivi.
Al momento attuale una massiccia campagna di marketing delle case farmaceutiche, con la collusione delle riviste di psichiatria e dei megacongressi, ha reso gli antidepressivi tra i farmaci più usati in Occidente. Questo aumento viene surrettiziamente utilizzato per un’altra operazione molto discutibile: rinforzare l’equazione che il maggior consumo sia indizio di efficacia.
Ma è proprio sicuro che i farmaci antidepressivi funzionano così come vengono reclamizzati? E soprattutto, qual è il loro meccanismo d’azione?
Mi sembra utile, a questo proposito, citare una ricerca condotta da I. Kirsh e collaboratori, pubblicata nel 2002 sulla rivista ufficiale dell’APA. Per comprendere l’importanza di questa ricerca bisogna tener presente che quasi tutte le riviste psichiatriche sono sovvenzionate dalle case farmaceutiche, il che rende inevitabile una collusione, definita come il “dirty little secret” da alcuni psichiatri ad orientamento biologico.
Ma procediamo con ordine. Kirsh e collaboratori hanno avuto la possibilità, rivolgendosi alla FDA l’organismo federale USA che controlla l’approvazione dei farmaci, di poter visionare tutti gli Randomised Controlled Trial (RCT) ovvero le sperimentazioni fatte da ricercatori o case farmaceutiche ed utilizzate per l’approvazione e la messa in commercio di alcuni dei più conosciuti SSRI.
Credo che sia utile spiegare brevemente cosa sono gli RCT. Un RCT consiste nel somministrare un farmaco di cui si vuol studiare l’efficacia ad un gruppo di volontari, mentre ad un altro viene somministrato un placebo. Dopo un sufficiente periodo di tempo i risultati provenienti da questi due campioni vengono elaborati con una specifica scala di valutazione. Va sottolineato che per dare maggiore scientificità ai risultati, le somministrazioni vengono condotte in “doppio cieco”, cioè né il paziente né il terapeuta sono a conoscenza di quale gruppo assume il farmaco e quale invece il placebo. Ovviamente un meccanismo così complesso sembrerebbe dare la massima garanzia sulla attendibilità e l’imparzialità dei risultati. Ma così non è!
Cosa hanno trovato I. Kirsh e collaboratori? Hanno trovato che il miglioramento nel gruppo trattato con il placebo era molto elevato rispetto al gruppo trattato con lo psicofarmaco e che solo il 18% della risposta positiva poteva essere attribuito all’influenza dell’SSRI. Detto in altri termini, solo il 18-20% dei pazienti rispondeva positivamente all’assunzione del farmaco: dato significativo ed inquietante, perché è evidente che l’effetto positivo degli antidepressivi è legato all’effetto placebo (a questo proposito vedi su www.nicolalalli.it “Il placebo come perturbante”).
Ma c’è un dato ancora più interessante: il 57% degli studi finanziati dalle case farmaceutiche che erano falliti, nel senso che gli SSRI avevano un effetto uguale o addirittura minore del placebo, non erano mai stati pubblicati, falsificando così, in maniera plateale, i risultati. Certo il metodo adottato, ovvero il sistema RCT e poi il doppio cieco, dovevano servire a fornire una prova ineccepibile di scientificità, se non ci fosse il piccolo particolare di aver poi falsificato i dati ottenuti.
Credo che questo ultimo evento dia la misura della mistificazione che esiste nel campo della ricerca psicofarmacologica.
Quanto prima riferito, può essere utile per fornire una spiegazione di un fenomeno ben strano e singolare nella storia della medicina: da una parte un continuo miglioramento dei vari farmaci antidepressivi, dall’altra, contemporaneamente un aumento vertiginoso, esponenziale, dei casi di depressione. Singolare situazione schizofrenica che ci obbliga a considerare non solo che l’efficacia degli antidepressivi possa essere molto relativa, ma soprattutto che evidentemente l’aumento dei casi di depressione, deve essere spiegato con motivi culturali e sociali, motivi ben più complessi della semplice alterazione dei neurotrasmettitori.
La documentazione trovata da Kirsh è stata successivamente sottoposta all’esame di numerosi psichiatri, i quali hanno accertato la correttezza dello studio di Kirsh. Alcuni di questi hanno ammesso tristemente che di questa scorrettezza si era già a conoscenza: era questo “il piccolo sporco segreto” (dirty little secret) degli psichiatri.
È importante conoscere questi dati che, se non mettono in totale discussione l’efficacia degli antidepressivi, evidenziano che molte affermazioni fatte sulla base di dati così manipolati, sono scorrette e pertanto non accettabili.
Sicuramente si rende necessaria una maggiore trasparenza nella ricerca clinica e soprattutto nella pubblicazione dei risultati. Necessità evidenziata dall’OMS fin dal 2005 che ha proposto di creare un data-base nazionale dove debbono essere registrate tutte le ricerche, sia dei ricercatori che delle case farmaceutiche, al momento della loro attivazione, pena il divieto di pubblicazione: in modo tale da impedire l’occultamento dei risultati negativi.
Una volta chiariti questi fattori che inquinano la ricerca sulla depressione, possiamo porci correttamente due questioni fondamentali.
La prima è chiarire se la depressione è un’entità patologica di origine biologica che viola ed invalida la struttura psichica o se invece essa deriva da una particolare struttura psichica che diventa patologica di fronte ad eventi traumatici.
La seconda è se esiste un’unica forma di depressione o se invece esistono forme diverse che potrebbero avere un’eziologia ed ovviamente anche un trattamento diversi.
Queste due problematiche, con le relative risposte, sono essenziali per proporci correttamente un terzo problema: quali sono gli interventi migliori e più efficaci nelle varie manifestazioni della depressione.
Ma prima di addentrarci in queste problematiche, anche per contestare una visione attuale largamente condivisa che la depressione sia un disturbo della modernità, mi sembra utile ripercorrere brevemente la storia della depressione.

 

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