Le tecniche di procreazione assistita sollevano dilemmi morali
che la riproduzione naturale ignorava. Se è ammessa la libertà
di procreare, deve essere ammessa anche la libertà di ricorrere alla
procreazione artificiale? Alla riproduzione artificiale può essere attribuita
la stessa inviolabilità che caratterizza la riproduzione naturale?
La possibilità di decidere se, come e quando avere un figlio non dovrebbe essere limitata se non di fronte a gravi motivazioni, e l'onere di dimostrare la fondatezza di una simile limitazione pesa su coloro che desiderano vietare. La libertà procreativa è espressione di quel bene inviolabile che è la libertà individuale, e non c'è alcuna differenza moralmente rilevante tra i casi in cui il godimento di tale libertà richiede l'intervento di tecniche biomediche e gli altri casi. La recente legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita restringe fortemente l'insieme delle persone che possono farvi ricorso, e pone in essere una situazione in cui la libertà procreativa artificiale è limitata, quasi cancellata, senza che esistano valide ragioni.
Per secoli la riproduzione umana e i rapporti sessuali sono stati saldamente uniti. Ogni concepimento era condizionato dalla consumazione di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna, e ogni rapporto sessuale implicava misteriosamente il rischio di una gravidanza.
La comprensione del processo riproduttivo costituisce il primo passo di una trasformazione che diventa tumultuosa quando dalla conoscenza si passa alla possibilità di intervenire su un avvenimento fino a quel momento completamente naturale . La prima rivoluzione avviene con i metodi anticoncezionali: diventa possibile il sesso senza procreazione. La seconda rivoluzione avviene con le tecniche di procreazione assistita: diventa possibile la procreazione senza sesso.
Le tecnologie riproduttive rimediano alla sterilità, arginano il rischio di trasmissione di malattie genetiche al nascituro, cancellano la casualità della riproduzione e si impongono come mezzi per compiere una scelta procreativa. La trasformazione della procreazione da naturale ad artificiale muta i concetti di famiglia, di parentela e solleva numerose questioni morali che la riproduzione umana tradizionale ignorava. L'originario e monolitico percorso si divide e pone gli individui di fronte a numerosi bivi. La natura compatta della procreazione si frammenta in dilemmi morali complessi e delicati.
La libertà procreativa è ampiamente ammessa quando si tratta di procreazione naturale . Il mio intento è di dimostrare che non ci sono ragionevoli argomenti per considerare diversamente la procreazione artificiale . Le decisioni procreative, anche se realizzate con il ricorso a tecniche di procreazione assistita, devono essere lasciate ai singoli individui. La loro limitazione deve richiedere forti giustificazioni, perché ogni divieto o interferenza intacca gravemente la libertà. Voglio sostenere che la libertà procreativa è un bene inviolabile in quanto espressione della libertà individuale; e che a suo favore esiste una presunzione che costringe all'onere della prova coloro che vogliono limitarla o cancellarla.
La domanda cruciale potrebbe essere formulata nel modo seguente: il tradizionale rispetto per la libertà procreativa naturale può essere esteso alla libertà di accedere alle tecnologie riproduttive, ovvero alla libertà procreativa artificiale ? Intendo sostenere una risposta affermativa a questa domanda.
La risposta della legge italiana è solo parzialmente positiva. Nel febbraio 2004 il Senato della Repubblica approva la legge n. 40, “norme in materia di procreazione medicalmente assistita”: l'accesso alle tecniche procreative è consentito alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, previo accertamento di sterilità. La legge, è evidente, impone numerose restrizioni legali alla libertà procreativa; tuttavia non offre quelle forti giustificazioni che le renderebbero legittime. La legge rispecchia le credenze morali che sono maggiormente diffuse e che sono al momento politicamente più forti. Secondo queste credenze molte azioni sono immorali. Il giudizio di immoralità è senza dubbio controverso e discutibile, e soprattutto in una concezione liberale dello Stato il giudizio morale è affidato ai singoli individui; di conseguenza è ammessa una ampia eterogeneità. Questo implica che giudicare una azione come immorale non può essere una condizione sufficiente per vietarla ricorrendo alla coercizione legale. Per dichiarare illegale una azione devono intervenire altri requisiti.
L'analisi della legge sulla procreazione medicalmente assistita mi offre il pretesto per discutere alcuni nodi concettuali che sono necessariamente implicati: lo statuto dell'embrione, il concetto di persona, i limiti della coercizione legale, la libertà individuale, la libertà procreativa.
La legge sulla procreazione medicalmente assistita è una legge pesante : i divieti sono numerosi e piuttosto che regolamentare l'accesso alle tecniche di procreazione assistita la legge si incarica di negare immotivatamente questo accesso a molte categorie di individui. Questi confini appaiono ingiustificati se la procreazione assistita viene equiparata a una terapia: quale sarebbe la ragione per escludere qualcuno in base, ad esempio, allo stato di famiglia o alle preferenze sessuali? Se anche non si vuole equiparare la procreazione assistita a una terapia, questi confini imposti alla libera scelta individuale appaiono comunque infondati: per sostenerli non viene addotta nessuna argomentazione che possa essere valida in una democrazia liberale.
La legge sulla procreazione medicalmente assistita spinge l'intervento dello Stato oltre i limiti disegnati dalla libertà individuale, e cancella la libertà di scegliere se , come e quando avere un figlio nel caso in cui tale scelta possa essere soddisfatta solo ricorrendo alla procreazione assistita. Una legge ambigua, che criminalizza la fecondazione eterologa ma non si pronuncia sull'eventuale punibilità per coloro che aggirerebbero tale divieto recandosi all'estero. Una coppia potrebbe recarsi nella cattolica Spagna, dove la fecondazione eterologa è permessa, e tornare in Italia in attesa di un figlio. Questa coppia si macchierebbe di un reato? Cosa ne sarebbe di coloro i quali non possono permettersi di andare in Spagna e che potrebbero avere un figlio soltanto ricorrendo alla fecondazione eterologa?
È una legge che riconosce la sterilità come una malattia e dunque considera il rimedio (la procreazione assistita) come un carico che lo Stato deve accollarsi; nonostante questa premessa eroga fondi ridicolmente inadeguati, aprendo così la strada alla bieca discriminazione economica. La libertà di avere un figlio è subordinata alla condizione economica degli individui.
È una legge, infine, confusa e inconcludente dal punto di vista terminologico, e profondamente disomogenea nello stabilire le sanzioni per le violazioni dei divieti.
Affermare che tale legge viola la libertà individuale implica una certa posizione riguardo al fondamento legittimo della coercizione legale e, in secondo luogo, una presa di posizione precisa nei riguardi dell'argomento più controverso: lo statuto giuridico dell'embrione (o del concepito, come recita la legge).
Vietare un'azione, in una democrazia liberale, richiede la dimostrazione che quell'azione violerebbe i diritti di qualcuno e gli procurerebbe un danno. Non è sufficiente che un individuo (ma anche la maggior parte, oppure tutti) ritenga quell'azione immorale, contraria alle proprie idee, alla propria religione o al proprio senso del pudore. Gli omicidi sono vietati perché violano i diritti delle eventuali vittime (il diritto alla vita in primo luogo) e procurano loro un danno (la morte), ma i tradimenti amorosi non sono vietati dalla legge (sebbene ci sia un danno per chi è tradito, e molti li ritengano immorali) perché non esiste nessuna conseguente violazione di un diritto (il diritto di non essere traditi dal proprio amante). In presenza di una sola delle due condizioni (o la violazione di un diritto o la presenza di un danno) una azione non dovrebbe essere penalmente sanzionabile.
L'unico motivo per cui la legge sulla procreazione assistita potrebbe contenere tanti divieti (fecondazione eterologa, accesso alle tecniche per le donne single, sperimentazione sugli embrioni) dovrebbe dunque essere la constatazione di una possibile violazione di un diritto di qualcuno e della presenza di un danno a qualcuno. Ma chi sarebbe il detentore di diritti, e chi potrebbe subire un danno?
Per rispondere è necessario affrontare la questione dell'ammissibilità giuridica dell'attribuzione di diritti all'embrione e del suo statuto morale. Attribuire dei diritti all'embrione conduce in un terreno scivoloso e delinea un inevitabile conflitto con i diritti della madre. Prima di attribuire con leggerezza all'embrione quei diritti di cui godono le persone, nell'incertezza dell'equivalenza tra embrione e persona, è necessario indagare le possibili conseguenze di tale attribuzione. Alla questione della titolarità di diritti si lega a doppio filo la discussione sullo statuto morale dell'embrione: se si può considerare l'embrione come persona, e quando lo diventa.
La mia indagine gravita essenzialmente intorno a un tipo particolare di libertà, intesa come quello spazio di scelta personale e individuale su cui la coercizione statale non può e non deve pronunciarsi, sulle conseguenze sgradite che la sua violazione comporta e sulla necessità di gravi ragioni per giustificarne la limitazione.
Ho deciso di tralasciare la discussione relativa al problema del se e con quale criterio lo Stato avrebbe il dovere di garantire agli individui l'accesso alle tecniche di procreazione assistita. Ovunque esista un bene il cui godimento è alla portata di un numero inferiore di individui rispetto a coloro che desiderano usufruirne, si delinea un dilemma morale di equa distribuzione delle risorse. In generale la natura della discriminazione può essere di vari tipi; nel caso della procreazione medicalmente assistita, in Italia, sembra prendere l'aspetto della discriminazione economica. Solo chi è in grado di affrontare il costo delle tecniche artificiali può tentare di rimediare all'impossibilità di avere un figlio per vie naturali. La condanna o l'ammissibilità di un criterio economico quale spartiacque tra la possibilità e l'impossibilità di ricorrere alla procreazione assistita dipende dalla posizione dello Stato sulla procreazione assistita e sull'eventuale ammissibilità di un diritto di avere un figlio. In altre parole, accettare o rifiutare il criterio economico comporta un giudizio sullo statuto della procreazione assistita e sulla natura della procreazione in generale: procreare è un bene primario che deve essere garantito a tutti, oppure è un bene superfluo che o si possiede naturalmente o si può ottenere artificialmente in base al criterio della disponibilità economica? La procreazione assistita deve essere considerata alla stregua delle cure sanitarie per le gravi patologie oppure al pari degli interventi di chirurgia estetica? E ancora, come lo Stato dovrebbe proteggere un eventuale diritto di avere un figlio, in circostanze artificiali come in circostanze naturali?
Equiparare la procreazione assistita a quei beni fondamentali di cui ogni individuo può godere senza discriminazione significa inevitabilmente condannare duramente il requisito economico. Ammettere un diritto ad avere un figlio comporta la rimozione di simili impedimenti anche per i concepimenti naturali (ovvero, la realizzazione di rimedi a quelle condizioni di indigenza che impediscono o rendono estremamente angoscioso mettere al mondo un figlio – rimedi ben dissimili dall'assegno di incoraggiamento previsto dal governo Berlusconi e pari a 1.000 euro).
Ho cercato di rendere ogni capitolo parzialmente autonomo. Spero che qualche ripetizione causata dal perseguire un simile scopo mi sarà perdonata.
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CENTRO DI PSICOTERAPIA DINAMICA
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