È qui delineato il naturale esito di un lungo percorso, clinico e teorico, nell'ambito della psichiatria (vedi i numerosi lavori dell'Autore), e l'inizio di un nuovo percorso tendente a proporre le basi metodologiche ed epistemologiche della psichiatria stessa. Il testo affronta il tema della natura dell'uomo, ricercandone la specificità, nell'origine e nei vari passaggi evolutivi, secondo le più recenti ed accreditate ricerche scientifiche sul tema. Comprendere com'è avvenuta l'evoluzione dell'uomo - e quali fattori siano stati a determinarla - serve non solo a comprendere quella specificità umana che si manifesta con tutte le numerose capacità che lo distinguono anche dai più vicini "cugini", ma soprattutto a capire la massima drammatica specificità umana che è la follia.
Da sempre la psichiatria, nata dalle "costole" di consorelle più nobili e riconosciute, come la Filosofia, la Medicina, la Neurologia, si è accontentata di un ruolo di facciata, senza mai cercare un'identità specifica di disciplina scientifica.
Invece di sviluppare una propria identità, la psichiatria ha sempre preferito delegare ad altre discipline il diritto della propria esistenza.
Vorrei proporre di invertire questa tendenza, affermando che la Psichiatria è in grado di autofondarsi e di proporsi come disciplina autonoma, dal momento che essa ha come scopo l'osservazione e la rilevazione di eventi molto complessi come quelli psicopatologici.
Per raggiungere quest'obiettivo, essa deve necessariamente fornirsi di uno specifico metodo di ricerca, il che vuol dire, in primo luogo, rifiutare certe proposizioni che in molti studiosi suscitano legittimamente "le più ampie perplessità epistemologiche" .
Senza ripercorrere la storia della psichiatria, è sufficiente riferirsi a quella che è stata considerata l'opera più completa e moderna della psichiatria italiana e cioè il Trattato italiano di Psichiatria, dovuto al contributo di vari autori, edito da Masson 1993, in seconda edizione, 1999.
Riporto alcuni passi significativi.
"Le tensioni e le tendenze a cui è sottoposto l'argomento del funzionamento mentale sono tali e tante, che le teorie che tentano di esplicarlo e di definirlo sono non solo divergenti e spesso inconfrontabili l'un l'altra, ma di solito frammentate e contraddittorie al loro stesso interno…per cui cercare di dare una visione d'assieme agli scopi di una trattazione di psicopatologia è francamente impossibile".
Lo stesso autore, R. Rossi, continua affermando che anche le terminologie hanno assunto un carattere talmente arbitrario che "indicano contaminazioni tra dimensioni diverse e talora epistemologicamente incompatibili".
E. P. Pancheri afferma:
"Ragioni storiche e il fatto obiettivo che il comportamento normale e patologico può essere oggetto di interpretazioni multiple a vario livello, ha favorito la creazione di due correnti apparentemente non conciliabili".
Da un'apparente sofferta presa di coscienza di una difficoltà, si passa ad una totale accettazione delle diversità che nega l' evidente problematicità:
"Molte discordanze possono essere mantenute vive ed assumere il compito di trasmettere una parte importante di ogni lavoro collettivo: l'accoglimento e la tolleranza di opinioni diverse e difficilmente conciliabili".Fino a giungere all'esaltazione di questa prerogativa, cioè di una disciplina dove tutto è possibile e che fa di un fallimento una supposta vittoria.
"Dopo più di duemila anni di storia sotterranea e dopo duecento anni di storia ufficiale, la psichiatria sembra ammettere oggi, per la prima volta, la felice impossibilità di un paradigma unitario".
Non vorrei essere frainteso: non ritengo questo atteggiamento
specifico e peculiare dei collaboratori, numerosi e qualificati, per lo meno
sul piano accademico, del Trattato citato. Molte altre scuole concordano
su questa intrinseca necessità di una posizione eclettica ed ecumenica della
psichiatria. Fra i tanti cito E. Borgna, noto psichiatra fenomenologo che afferma
con sicurezza: "Non c'è una sola Psichiatria, ma ci sono diverse psichiatrie.
Ogni psichiatra sottende un suo proprio metodo conoscitivo e non solo un suo
proprio oggetto" .
Quest'affermazione a me sembra inquietante: stando ad essa mentre ogni disciplina (non dico nemmeno una scienza) si connota per l'unicità del metodo e per la specificità dell'oggetto di studio, la psichiatria potrebbe non solo avere metodi diversi, ma addirittura oggetti di osservazione diversi.
Potrei continuare all'infinito in queste citazioni che evidenziano il grave stato di malessere di questa disciplina e la conseguente, comprensibile, perplessità di quanti cercano di riconoscerne la validità. Pertanto è inevitabile che quello che si presenta allo sguardo di un osservatore attento "è proprio l'immagine del campo di battaglia - se non quella kantiana - del brancolamento".
Purtroppo l'affermazione è convincente, quindi bisogna in primo luogo comprenderne la natura, comprendere qual è il difetto, il peccato originale di questa disciplina di presentarsi come un "campo di battaglia", metafora di un sapere frammentato.
Coloro che hanno tentato di spiegare la frammentazione della psichiatria, spesso la riconducono a quell'insanabile dicotomia mente-corpo che, non potendo essere ricomposta, genera, come minimo, due filoni profondamente opposti: quello biologico e quello psicologico.
Ritengo invece che la causa è insita nella metodologia psichiatrica, ed è coeva alla nascita stessa di questa disciplina.
In origine la psichiatria ha avuto come oggetto di studio il malato mentale, successivamente sostituito da una categoria astratta: quella delle malattie mentali. E gli psichiatri che hanno speso gran parte del tempo nel descriverne più o meno minuziosamente i segni ed i sintomi, non si sono mai preoccupati di chiedersene il come e il perché, ma soprattutto non si sono mai soffermati a definire coerentemente il concetto di normalità-sanità mentale, parametro indispensabile per evidenziare il disturbo mentale. Al massimo hanno assunto come riferimento la norma statistica che ben sappiamo quanto sia fallace.
Questo filone che definiamo clinico-descrittivo, è proseguito dagli albori della psichiatria a tutt'oggi: il DSM IV ne è la prova più evidente. E se agli inizi questo limitarsi a descrivere i sintomi senza capirne il perché e il come, è apparso come un limite, almeno agli psichiatria più illuminati, è invece diventato nel DSM IV una sorta di "orgoglio" scientifico.
Altri, nel rifiuto del concetto di malattia mentale, hanno cercato di inventare una ben strana psicopatologia scollegata completamente da ogni intento trasformativo: una psicopatologia come puro piacere di osservazione e descrizione, dove spesso è ben difficile discernere le cose osservate da quelle inventate di sana pianta: è la psichiatria fenomenologica.
Altri poi si sono invece impegnati a costruire un sistema teorico di psicologia, senza tener conto se poi quella psicologia era in grado di spiegare il disturbo mentale: accettando così come evento normale che una "fisiologia dei processi psichici", nulla ci dicesse circa la patologia degli stessi.
Altri ancora hanno proposto tecniche o modalità di "cura" che prescindevano da qualsiasi ipotesi teorica circa la patogenesi del disturbo psichico.
Altro che "campo di battaglia"! A me sembra piuttosto che si ripeta la nota storiella del saggio orientale. Ad un vecchio saggio si presentano due gruppi di persone per esporre un problema sul quale sono in completo disaccordo. Dopo che il primo gruppo ha espresso le proprie opinioni il saggio, lisciandosi la barba, dice: "Bene. Penso che potreste avere ragione". Al secondo gruppo che espone ragioni diametralmente opposte a quelle del primo, il vecchio saggio, sempre lisciandosi la barba, dice: "Secondo me potreste avere ragione anche voi". A questo punto uno dei presenti gli fa notare che è molto assurdo dare ragione a persone che la pensano in maniera completamente diversa ed il vecchio saggio, sempre lisciandosi la barba, dice: "…anche tu potresti avere ragione".
In effetti il problema di fondo della psichiatria non è la famosa dicotomia mente-corpo, bensì l'assenza di una metodologia rigorosa, assenza che rende accettabile e plausibile qualsiasi metodo di osservazione rispetto ad un oggetto che spesso rimane indefinito e indefinibile.
Ma dopo aver evidenziato questa frammentazione, o per meglio dire questa possibilità di proporre qualsiasi soluzione, anche la più disparata, è necessario superare quest'impasse, se si vuole proporre la psichiatria come disciplina scientifica.
Ma questo presuppone necessariamente un metodo coerente che si occupi contemporaneamente, della comprensione-spiegazione dei normali processi psicologici (psicologia), delle dinamiche che creano la patologia (psicopatologia dinamica), significa proporre una teoria della clinica e una possibilità trasformativa (terapia) coerente con le premesse psicologiche e psicopatologiche.
Solo in questo modo la psichiatria potrà aspirare a definirsi come disciplina scientifica.
Ma per proporsi come disciplina scientifica, la psichiatria deve affrontare due problemi centrali per l'uomo: problemi che ovviamente non sono di esclusiva competenza della psichiatria, ma di una serie di discipline alle quali, sulla base di una corretta metodologia, la psichiatria potrà e dovrà chiedere lumi.
Il primo riguarda la conoscenza, ovvero esplicitare quali sono i processi mediante i quali l'uomo riesce a costruire un'immagine ed una spiegazione sia del mondo materiale che di quello psichico.
Il secondo è evidenziare la specificità della natura umana: se la follia è una specificità della natura umana, allora possiamo pensare che la psichiatria, nella sua specificità, unita alla teoria dell'evoluzione possa darci un quadro, il più completo possibile, della natura dell'uomo.
In questa sede queste due problematiche saranno trattate sinteticamente, dal momento che esse costituiranno gli argomenti di una serie di scritti di cui questo è appunto l'inizio.
Nell'ambito del problema della conoscenza un quesito fondamentale è stato quello di capire le modalità e le possibilità della conoscenza della realtà. Realtà o reale, come indica l'etimologia, si riferisce a tutto quello che è materiale, visibile ed esiste indipendentemente dall'attività del soggetto. Questa concezione formulata da una corrente filosofica, definita appunto realismo, ha dominato la filosofia fino a qualche secolo fa, con l'unica eccezione dello scetticismo. In questa visione la realtà può essere conosciuta attraverso i sensi, le percezioni e l'intelletto, che trasformano questa realtà in idea della realtà. Idea, etimologicamente, vuol dire "visibile"; l'ideazione quindi è l'attività conoscitiva del soggetto nei confronti della realtà oggettiva.
"Per F. Hegel la filosofia greca è solamente comprensione dell'idea… La comprensione dell'idea è quel modo di pensare che è consapevole solamente delle cose e dei loro significati (o categorie) ed è dimentico a se stesso: il pensiero vede la realtà, ma non vede questo suo vedere, che tuttavia avvolge e illumina la realtà"
(E.Severino, vol.II, p.10)10.
Ora è vero che la filosofia greca pone una distinzione tra verità (epistéme) e opinione (doxa). Ma è fondamentale la convinzione che c'è una identità immediata di verità e certezza: precisando che la verità appartiene all'esistenza e alla conoscibilità di un mondo esterno, mentre la certezza è una determinazione soggettiva.
"Noi possiamo essere certi di cose vere e false: ciò vuol dire che la 'certezza' è uno stato del pensare (cioè della coscienza, della mente), mentre la 'verità' è uno stato delle cose" (E.Severino, ibidem,p.13).
Nel tempo ci si è preoccupati sempre più di comprendere quali
sono i processi della conoscenza e poi se i processi di conoscenza della realtà
materiale e di quella psichica possano essere assimilati.
Problemi di primaria importanza in psicopatologia: in fondo il delirante è colui
che è assolutamente certo di qualcosa che noi sappiamo non essere vero.
Pertanto può essere utile ripercorrere il lungo e faticoso travaglio del pensiero
occidentale circa queste problematiche.
Per un lungo periodo, la filosofia ha assunto un atteggiamento nei confronti
della realtà prevalentemente speculativo che però cambia intorno alla metà del
'500.
Con l'inizio della scienza moderna non si tende più a contemplare, ma a dominare
la realtà: in questo modo si dovrà rinunciare a una visione globale del Tutto,
per rivolgersi alle singole parti che, una volta isolate dal contesto, possono
essere meglio verificate. Il sapere non è più fine a se stesso, ma diventa potere
(F.Bacone).
Il problema della epistéme, della unità di certezza-verità si sposta
dalla comprensione del Tutto alla verifica nell'esperimento, che darà
frutti innegabili nelle scoperte scientifiche.
Si evidenzia che le realtà "qualitative" dei colori, dei suoni, degli odori,
non sono tali quali le percepiamo: esse non esistono nella realtà, ma sono un
nostro modo di percepire. I sensi quindi ci possono ingannare come sono ingannevoli
certe verità o credenze che si tramandano e che sono considerate verità assolute.
Quindi non solo i sensi, ma anche il pensiero dogmatico deve essere sottoposto
a verifica: basti pensare alla teoria geocentrica ed alla legge della caduta
dei gravi. Per quanto riguarda quest'ultima, dalla fisica aristotelica in poi
si riteneva che gli oggetti raggiungessero terra con una velocità direttamente
proporzionale al peso.
La verità era ostensibile ed evidente: se si gettano da una torre, una piuma
ed una pietra, questa - più pesante- raggiunge il suolo in un tempo di gran
lunga inferiore.
Ma G. Galilei, non molto convinto, eseguì un esperimento molto semplice, apparentemente
simile al primo, ma che a differenza dell'altro era costruito sulla base di
un ragionamento che poteva permettere una verifica ed una deduzione.
Se era vero quanto affermava la fisica aristotelica, facendo cadere contemporaneamente
da una torre, una sfera di ferro del peso di una libbra ed una del peso di cento
libbre, quest'ultima doveva raggiungere il suolo in un tempo pari ad 1/100 dell'altra.
Ma l'evidenza dimostrava che le due sfere raggiungevano il suolo pressoché nello
stesso istante. Quindi si doveva dedurre che la differenza di peso non influiva
sul tempo di caduta.
Galilei aveva attuato un esperimento ed aveva ottenuto una verifica:
non solo che i gravi cadono con una velocità pari - nonostante la diversità
del peso- ma poteva dimostrare anche la fallacia dell'altra osservazione che
sembrava tanto evidente da non aver bisogno di dimostrazione: il comportamento
della piuma non era dovuto alla leggerezza, ma al fatto che a causa della particolare
forma, opponeva una maggiore resistenza all'aria.
Quindi si poteva dedurre ulteriormente che in assenza di aria, la piuma e la
pietra avrebbero raggiunto il suolo più o meno nello stesso istante.
E' evidente che l'esperimento comporta una nuova modalità della conoscenza:
la verità si raggiunge attraverso la verifica , che etimologicamente
significa fare il vero.
Base di questa nuova conoscenza diventa quindi l'esperimento, che comporterà
notevoli progressi nella ricerca e nella conoscenza della realtà materiale.
Ma l'esperimento ha una peculiarità: possono, anzi debbono, essere eliminati
due fattori che come vedremo sono fondamentali invece nell'osservazione della
realtà umana. Il primo è il tempo, infatti l'esperimento non ha una freccia
vettoriale e può essere ripetuto all'infinito; il secondo è l'osservatore stesso
che una volta predisposto l'esperimento, non deve più interagire, ma limitarsi
solo a raccoglierne i frutti.
Tutto questo comporterà una profonda ripercussione non solo sulla visione della
natura, ma anche sulla visione del soggetto osservante, cioè dell'uomo. Era
inevitabile che una nuova modalità di osservazione della natura che tra l'altro
dava risultati ben visibili, comportasse una diversa concezione circa la natura
e le funzioni dell'osservatore.
Non è un caso che proprio a partire dalla metà del '600, inizia una nuova profonda
riflessione sull'uomo e sulla conoscenza.
Cartesio, conosciuto esclusivamente come il fondatore di quella dicotomia mente-corpo
che esisteva invece da almeno duemila anni, è colui che attraverso il dubbio,
e quindi la possibilità di un'affermazione, ripropone il problema della verità
come qualcosa che non può essere ridotto alla verifica degli esperimenti.
La res cogitans di Cartesio ripropone la possibilità (anche se con l'ambiguità
coesistente della res extens) di una ricerca della verità.
"La verità si rivolge al tutto, anche nel senso che mette in questione tutto e confronta tutto a se stessa e pertanto giudica tutto. Anche in Cartesio il dubbio investe il tutto e proprio per questo si imbatte in ciò che è assolutamente indubitabile. E con Cartesio si inizia a ritenere che il pensiero è l'essenza della realtà: l'idea non è l'id quod cognoscitur (ciò che è conosciuto), bensì l'id quo cognoscitur (ciò per mezzo della quale - idea - si conosce)" (E.Severino).
Queste proposizioni cartesiane saranno riprese da Spinoza,
che nella Sostanza cercherà una concordanza immanente tra pensiero e realtà
esterna. Anche se ambedue i filosofi non potranno rinunciare (e non solo per
evitare probabili persecuzioni da parte del potere ecclesiastico) all'idea di
un Dio.
Forse è solo G.B.Vico (nella Scienza nuova) a proporre in maniera decisamente
laica che la mente umana può veramente guardare se stessa nel prodursi come
fatto storico.
Il verum ipsum factum vuol dire che nonostante tutti i limiti imposti
dalla teologia imperante, l'uomo fa la storia e questo è il campo di conoscenza
che costituisce la nuova epistéme.
Successivamente l'empirismo riproporrà con forza il problema della natura dell'uomo
per meglio comprendere il problema della conoscenza.
G. Locke con il Saggio sull'intelletto umano, G. Berkeley con il Trattato
dei principi della conoscenza umana fino a D. Hume con il Trattato sulla
natura umana, pur con modalità diverse ripropongono un tema unico: come
superare il dogmatismo teologico e riconoscere che l'uomo è il metro della realtà,
pur con limitazioni ed ambiguità.
E. Kant, nel riconoscimento del debito a Hume e nel proporre la possibilità
della conoscenza mediante categorie a priori, apre la strada all'idealismo.
In tutti questi filosofi e nei successivi il problema della natura, della realtà
e della conoscenza, sono tematiche fondamentali, e spesso il pensiero filosofico
entrerà in contrasto con il pensiero scientifico che, dando per scontati e superati
questi problemi, è rivolto alla esclusiva ricerca di ulteriori approfondimenti
con quel metodo sperimentale che forniva tanti successi nel campo della conoscenza
della realtà materiale e che trovava nella tecnologia una ulteriore conferma
della validità di quella conoscenza.
Il problema della conoscenza, che da sempre ha occupato la
mente dell'uomo, è stato al centro di un dibattito, vivo e coinvolgente, che
si è svolto in un arco di tempo a cavallo tra la fine dell'ottocento ed i primi
del novecento.
Momento di crisi per tanti paradigmi rimasti intoccati per secoli, ma anche
momento di crescita: come una cerniera tra il passato ed il futuro.
"Ogniqualvolta due persone si incontrano, ci sono in realtà sei persone presenti. Per ogni uomo, vi è uno per come egli stesso si crede, uno per come lo vede l'altro, ed infine uno per come è realmente".
Così affermava agli inizi del novecento, W. James, psicologo
e filosofo.
E qualche anno dopo:
"Ma il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò comunicare, come si traduce in me quello che voi dite. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole di per sé sono vuote? Vuote caro mio! E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; ed io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio".
Così L. Pirandello (in "Uno, nessuno, centomila").
In maniera più asettica il filosofo americano, in maniera più drastica il drammaturgo
siciliano, esprimono due nodi fondamentali della cultura occidentale agli inizi
del novecento: la perdita dell'unità-identità dell'uomo e l'impossibilità di
comprendersi l'un l'altro fino a giungere ad una totale incomunicabilità.
Da questi due esempi si potrebbe pensare che " la perdita delle certezze" ,
riguardi esclusivamente l'uomo nella possibilità di conoscersi, conoscere l'altro
e farsi comprendere.
Invece, nello stesso periodo, non da meno accadeva alle scienze della natura.
Non esisteva più una sola geometria: quella euclidea che aveva resistito per
duemila anni, diventava una delle tante possibili geometrie; il tempo e lo spazio,
invarianti e costanti della fisica newtoniana, subivano radicali trasformazioni
sotto la spinta della teoria della relatività; le certezze assiomatiche della
matematica venivano rese indecidibili dal teorema di K. Gödel; la fisica quantistica
introduceva il concetto di probabilità e di indeterminismo.
Insomma alla solida certezza di P.S. Laplace che riteneva possibile conoscere
ogni movimento dell'universo, tale da assimilarlo ad un orologio dotato di ingranaggi
perfetti e controllabili , subentrava una concezione meno assoluta e più probabilistica
della conoscenza della realtà materiale. Quindi le incertezze non riguardavano
solo l'uomo nel suo conoscersi e nel suo comprendersi, ma anche la possibilità
di una conoscenza definita, definitiva e sicura della realtà materiale.
In effetti tra scienze dell'uomo (sarebbe più corretto dire scienze sull'uomo,
perché la scienza, come conoscenza, è sempre e solo dell'uomo) e scienze della
natura, c'è sempre stata una simmetria, troppo spesso sottovalutata.
La nota distinzione diltheiana tra scienze della natura e scienze dell'uomo,
che pur ha avuto una notevole funzione euristica, è stata ipertrofizzata, finendo
con il creare una totale estraneità tra questi due ambiti della conoscenza.
Ma la storia, per lo meno quella della cultura occidentale, ci dimostra invece
una nascosta simmetria: cosa ben comprensibile dal momento che l'uomo rimane
il centro sia della propria conoscenza che di quella della natura in cui è immerso.
Quindi esiste una realtà materiale che viene osservata e conosciuta ed esiste
un osservatore che è l'uomo.
Questa ipotesi elimina preliminarmente alcune aporie: come il solipsismo , il
costruttivismo o il riduzionismo ontologico, lasciando aperto il problema di
capire come queste due entità possono entrare in relazione e come avviene il
processo della conoscenza.
La prima metà del '900, dominata dalla ricerca sull'atomo, ha segnato il trionfo della fisica quantistica; la seconda metà, dominata dalla ricerca sul gene, ha visto il trionfo della biologia molecolare. E se la fisica quantistica ha contribuito ad aumentare la nostra conoscenza sul mondo fisico, la biologia molecolare ci ha portato a scoprire i fenomeni basilari della vita.
Ma ormai, alle soglie del duemila, io credo che per i prossimi decenni la ricerca si focalizzerà sulla mente: la mente con i suoi processi di apprendimento, conoscenza, creatività, sarà al centro della futura ricerca. Ricerca che presenta un aspetto paradossale: bisogna infatti utilizzare lo strumento della conoscenza, non più per conoscere la natura, ma per conoscere lo strumento stesso.
Come è possibile affrontare questo paradosso? Alcuni cercano di eliminarlo, proponendo che la progressiva evoluzione degli strumenti di rilevazione, cioè di quelle apparecchiature che a partire da cannocchiale di Galilei sono solo delle protesi, sempre più potenti, al servizio della nostra percezione, riuscirà a scoprire i misteri della mente. Altri invece ritengono che la mente è riducibile alle funzioni biologiche del sistema nervoso centrale e quindi è conoscibile se riusciamo a studiare queste ultime.
Ritengo che queste due proposizioni, epistemologicamente ed operativamente, siano sterili.
Lo studio della mente o, sarebbe più corretto dire della psiche, deve trovare strategie specifiche di ricerca.
Un punto fondamentale è proporre la netta differenza tra realtà materiale e realtà umana.
La realtà materiale riguarda tutto l'esistente inorganico; la realtà umana riguarda la specificità umana ed è quindi realtà psichica.
La distinzione tra realtà materiale e realtà umana implica inevitabilmente due diverse modalità di osservazione e di conoscenza.
Infatti, quando il soggetto si confronta con la realtà materiale, per poterla conoscere, deve attivare esclusivamente processi logico-deduttivi e l'osservazione sarà inevitabilmente oggettivante.
Se invece il soggetto, si confronta con una realtà psichica esterna, dovrà attuare modalità conoscitive e di osservazione diverse che si basano sul rapporto che attiva una percezione inconscia, dopodiché è possibile, ma solo dopo, attuare una conoscenza che ha il carattere del processo logico-deduttivo.
Quindi dobbiamo ritenere che le modalità di conoscenza della realtà materiale non sono sovrapponibili a quelle implicate nella conoscenza della realtà psichica: si tratta di due processi diversi ed il non averne tenuto conto, considerando come unico quindi il processo di conoscenza, ha comportato una serie di errori. Di questi il più evidente è che potesse essere applicabile ai problemi psicologici e psicopatologici quel metodo sperimentale che era stato utilizzato, e con molto successo, nell'ambito della conoscenza della realtà materiale.
A questo punto mi sembra necessario proporre due affermazioni basilari:
Passerò pertanto, rispetto al primo punto, a descrivere, molto brevemente, quel lungo periodo che va dalla fase fetale alla nascita fino al primo anno di vita, per sottolinearne la peculiarità e l'importanza.
Forse per comprendere fenomeni così complessi come quello della conoscenza, dobbiamo rifarci alle origini: in questo caso per origine intendo quel complesso periodo che va dalla fase fetale, attraverso la nascita, al primo anno di vita.
La dinamica di rapporto del feto con l'ambiente circostante presenta due particolarità: non c'è distinzione tra IO e TU, manca qualsiasi elemento della realtà materiale.
Ed in questa situazione "Il bambino nell'utero, attraverso la cute aveva la
capacità di realizzare, percependo le qualità dell'oggetto (calma, calore)
l'esistenza dell'oggetto… In una situazione di cecità fisica il bambino può,
dalle qualità dell'oggetto realizzare un'esistenza -presenza dell'oggetto stesso.
Il bambino percepisce con le sue possibilità che dobbiamo considerare libidiche
le qualità, le caratteristiche dell'oggetto e ne realizza l'esistenza" (M. Fagioli,
Istinto di morte e conoscenzai, pp.110-111).
Questa possibilità libidica struttura una naturale percezione del mondo in cui il feto è immerso; c'è una congruenza totale all'interno di un mondo che è esclusivamente biologico.
Potremmo definire questa fase - un po' forzando la mano - della totale identità di verità-certezza dell'oggetto.
Questa sensazione-percezione diventerà la base della prima immagine, quando questo stadio totalmente omeostatico, verrà interrotto dalla prima crisi fondamentale dell'uomo: la nascita.
Con la nascita c'è una radicale trasformazione ed in tempi anche molto brevi: non solo vengono attivate funzioni fondamentali come la respirazione e la circolazione del sangue, ma soprattutto il neonato si troverà ad essere bombardato da una quantità enorme, eccessiva, di stimoli nuovi e soprattutto non piacevoli.
Inoltre c'è una novità assoluta, che è la luce, dovuta all'attivazione dell'apparato visivo.
Pertanto il neonato si trova improvvisamente ad affrontare una realtà nuova, quella materiale, che è fatta di luce, di freddo, di stimoli intensi e diversi, da risultare comunque dolorosi.
Possiamo ipotizzare che il neonato di fronte a questa situazione traumatica, costituita dalla presenza inevitabile di una realtà materiale nuova ed aggressiva, cerchi di rifiutarla.
Questo rifiuto si esplicita, secondo M. Fagioli, con una doppia articolazione. Da una parte la tendenza a ritornare allo stadio precedente, dall'altra l'annullamento di quella realtà materiale strana ed inquietante. Nell'ambito della teoria pulsionale questa dinamica è resa possibile per l'emergere di una specifica fantasia, quella di sparizione, espressione dell'istinto di morte: ed è questa fantasia che rende possibile recuperare lo stato precedente.
In questa tendenza a tornare indietro, il neonato sulla base di tracce mnestiche, prevalentemente tattili-cenestesiche, crea una immagine interna che è l'inconscio.
E' quindi da questo scontro, da "questo schiaffo della natura", che nella fusione di istinto libidico e fantasia di sparizione, si ricreerà l'antica e originaria verità dell'esperienza prenatale che diventerà il punto di riferimento di certezza-sicurezza con il quale si dovranno confrontare le future percezioni del bambino nei rapporti interumani.
Nei primi mesi di vita il bambino si troverà ad affrontare e conoscere quasi esclusivamente la realtà umana che lo circonda e le cui qualità avranno un'importanza fondamentale per il suo sviluppo.
La realtà materiale, pur importante per la sopravvivenza dello stesso, non presenta quella ricchezza e quella complessità della realtà umana che costituisce pertanto la fonte primaria della sua crescita e del suo sviluppo.
Nel rapporto con il mondo interumano, il neonato dovrà confrontare quel vissuto primario con situazioni varie e diverse: l'oggetto potrà corrispondere (oggetto buono) o potrà non corrispondere (oggetto cattivo) alle aspettative ed all'investimento del bambino.
Pertanto il bambino dovrà correggere il proprio investimento e la propria capacità di percepire: perché nel rapporto, potrà aumentare il suo benessere o il suo malessere.
Questa capacità di correzione costituisce il nucleo iniziale di una capacità successiva molto più complessa che è l'Überstieg.
Fin dalla nascita il bambino cercherà non solo un rapporto interumano, ma soprattutto un rapporto soddisfacente e potrà percepire le qualità della realtà psichica degli altri, sulla base di una conferma o disconferma del suo stato primario. Avverrà quindi un cambiamento interno e sarà questo cambiamento a segnalare le qualità del rapporto interumano e quindi le valenze psichiche dell'altro. Ovviamente il malessere del bambino può essere generato anche da fattori materiali o somatici: ma in questo caso sarà proprio la capacità di intervento e di accudimento che segnalerà al bambino, nel cambiamento, la validità del rapporto.
Il bambino affinerà sempre più la percezione della realtà psichica dell'altro, sulla base di quanto l'altro gli provoca: quindi dalle proprie emozioni ed affetti egli percepisce la realtà emotiva ed affettiva dell'altro.
Con il passare del tempo ed anche per una più completa strutturazione degli apparati neuronali, il bambino tenderà sempre più ad interessarsi e conoscere la realtà materiale che lo circonda, mentre la motricità, sempre più sviluppata, gli fornirà la possibilità di concettualizzare lo spazio ed una più netta definizione del confine tra Io e non Io.
Siamo giunti quindi a quella fase ove si cominciano ad evidenziare i processi di apprendimento e di conoscenza del bambino, ma alla cui base rimane un dato fondamentale che non può essere annullato. Da una parte una capacità, generata dalla nascita, di avere un'immagine interna che è il fondamento dell'Io; dall'altra che lo sviluppo di questa potenzialità è strettamente legata alla qualità dei rapporti interumani.
Una presenza di validi rapporti umani, una capacità affettiva in grado di soddisfare le esigenze del bambino, permetteranno a questi una percezione ed una recettività sempre maggiore e la strutturazione, a partire dalla fusione delle pulsioni con le immagine interne, degli affetti, del pensiero, della verbalizzazione.
Queste brevi riflessioni rendono evidente che la conoscenza è una dinamica molto più complessa e soprattutto molto diversa da quella proposta da S. Freud con il concetto di introiezione - proiezione e da quella proposta da Piaget con il concetto di assimilazione.
La dinamica della conoscenza, così proposta, permette non solo di collegare, ma soprattutto in maniera coerente, il modello psicologico con quello psicopatologico e questi due con il modello di terapia che è psicoterapia.
E la psicoterapia diventa il vero "laboratorio" per la ricerca e la conferma di quelle ipotesi teoriche che debbono costituire la base di una psichiatria scientifica, ed in questo laboratorio non è necessario utilizzare l'esperimento che sicuramente ha dato risultati brillanti nel campo della fisica e della biologia.
E' necessaria invece una diversa modalità di osservazione e di conoscenza. Il voler applicare a tutti i costi, in questi campi, il metodo sperimentale che dovrebbe comportare una pretesa oggettività, comporta invece che i risultati sono spesso totalmente falsati, o comunque parziali.
Anche in questo caso per comprendere la complessità e la specificità
della natura umana ci riferiremo alle origini. In questo caso dovremo rifarci
all'origine della vita, alla sua evoluzione e diversificazione, alla luce delle
più recenti acquisizioni nel campo della teoria evoluzionistica.
Mi soffermerò brevemente su questo argomento, dal momento che costituisce il
tema del presente libro. Mi sembra opportuno, però, sottolineare due aspetti
fondamentali anche per fornire una visione, la più corretta possibile, della
teoria evoluzionistica.
La Terra ha 4,6 miliardi di anni, ma le prime rocce, costituitesi per un processo
di solidificazione del magma primario, risalgono a 3,9 miliardi di anni. Le
tracce più antiche di vita le ritroviamo ovviamente nei sedimenti di queste
rocce, che risalgono a circa 3,5 miliardi di anni. Se prima di questo periodo
erano presenti forme elementari di vita, ovviamente non avremmo mai alcuna possibilità
di poterlo evidenziare. Pertanto, l'inizio della vita viene stabilito, forse
in difetto, a circa 3,5 miliardi di anni fa. I primi reperti di vita sono costituite
da cellule procariote, cioè prive di nucleo, quindi estremamente semplici. Esse
probabilmente si formarono a partire dai costituenti chimici presenti nell'atmosfera
e negli oceani.
Molto tempo trascorse perché avvenisse un primo salto evolutivo significativo:
la comparsa del nucleo cellulare. Le cellule eucariote risalgono infatti a due
miliardi di anni fa. Bisogna attendere ancora 1,4 miliardi di anni per assistere
all'emergenza di organismi pluricellulari.
Questi primi dati evidenziano che c'è stato un progressivo, ma lentissimo, processo
evolutivo perlomeno nelle prime fasi. Ma soprattutto che manca quella che viene
ritenuta una verità, dalla più banale divulgazione della teoria evoluzionistica:
la progressiva scomparsa di elementi vitali primitivi a favore di elementi sempre
più complessi. E su questo falso postulato che è emersa la credenza che l'evoluzione
sia un processo progressivo e teleologico. In effetti, gli esseri viventi primitivi,
i batteri, continuano non solo ad essere presenti, ma in tale numero che J.
Gould può affermare "… la nostra è l'età dei batteri" come era all'inizio e
come sarà sempre. L'idea di un progresso e quindi di un processo deterministico
nell'evoluzione, nasce anche dal fatto che lo sviluppo nel tempo si è dovuto
evolvere necessariamente verso una maggiore complessità, perché a monte dei
batteri c'è quel famoso "muro di complessità minima" al di sotto del quale non
è possibile che si formino fenomeni vitali.
Quindi solo 600 milioni di anni fa compaiono gli animali pluricellulari ed assistiamo,
in questo periodo, ad uno dei fenomeni più enigmatici dell'evoluzione: l'esplosione
del periodo cambiano intorno a circa 530 milioni di anni fa. In questo periodo
la vita sembra aver fatto il massimo dello sforzo nella creazione della diversità.
Da allora fino ai giorni nostri si sono avute solo selezioni su temi anatomici
definiti in quella esplosione.
L'evoluzione è ampiamente soggetta alla contingenza, nel senso che i risultati
attuali non sono determinati da leggi immutabili della natura o da progetti
teleologici, ma sono plasmati da lunghe catene di eventi precedenti, assolutamente
imprevedibili.
Ovviamente quando noi ricostruiamo l'evoluzione dopo che essa è avvenuta,
questo può darci l'illusione di uno sviluppo progressivo: ma noi non avremmo
mai potuto prevedere prima cosa sarebbe successo, come non è prevedibile, al
momento attuale, la futura evoluzione.
Il fenomeno delle estinzioni di massa (la più conosciuta è la scomparsa dei
dinosauri dovuta al probabile impatto con la Terra di un meteorite), è legato
a fattori assolutamente imprevedibili e soprattutto dà luogo a soluzioni successive,
altrettanto imprevedibili. L'evoluzione dei mammiferi è stata una conseguenza
imprevedibile della scomparsa dei dinosauri. Tutto questo ci mette davanti ad
un processo evolutivo in cui il caso, e non il determinismo, ne regolano il
corso.
"...L'homo sapiens non compare sulla Terra appena un secondo fa in senso geologico. La comparsa degli esseri umani fu piuttosto la conseguenza, fortuita e contingente, di migliaia di eventi collegati, uno qualsiasi dei quali avrebbe potuto svolgersi in maniera diversa, dirottando la storia su un percorso alternativo che non avrebbe condotto all'emergenza dell'uomo". (S. J. Gould).
Ovviamente è utile risalire indietro nel tempo per comprendere
quale sia stato il momento di questo passaggio che per motivi, ancora da chiarire,
si ritiene che sia avvenuto intorno a 1,3-1,5 milioni di anni fa. Riteniamo
che il ripercorrere questo lungo iter ci possa fornire una chiave di
lettura per comprendere meglio la specificità e l'unicità della natura umana.
Pertanto, in questo libro cercheremo di affrontare il tema della natura dell'uomo,
partendo proprio dalle origini e dai vari passaggi evolutivi. A partire da questo
primo livello, sarà affrontato in un secondo libro il problema della conoscenza
ed in particolare di quella psichica, tema centrale di "Problemi epistemologici
in Psichiatria", che offrirà la possibilità di un confronto sempre ritenuto
impossibile, quello tra le neuroscienze e la psicologia dinamica.
Infine, con un terzo volume "Metodologia in Psichiatria", si proporrà un metodo
che coerentemente unisca la psicologia dinamica con la psicopatologia, la clinica
con la terapia.
E' auspicabile che questo sforzo che si condensa nei tre volumi di "Epistemologia
e Psichiatria" possa costituire un primo passo per una disciplina psichiatrica
sempre più scientifica, che alla confusione di quel "campo di battaglia" di
cui si parlava all'inizio, sostituisca una metodologia coerente e verificabile.
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CENTRO DI PSICOTERAPIA DINAMICA
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